Elena

giugno 13, 2012 § 21 commenti

Piccola serie di Racconti di: “Donne si raccontano”

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Elena                                            Fare e disfare

Fare. Sono stanca di fare: fai un caffè, non ti preoccupare faccio io, devo fare perché gli altri non fanno, faccio perché è necessario, forse perché mi è necessario, perché mi invento continuamente ragioni o scuse per il mio fare fare fare, perché in realtà non so vivere senza fare. Fare è il mio destino e la mia dannazione. E dentro in fondo allo stomaco, al cuore, alla pancia, ho un dolore fisso, come un crampo, che ogni tanto mi fa vomitare una lacrima, o tante lacrime, un diluvio: perché vorrei non fare, vorrei solo pensare, pensare a me, vorrei che gli altri non fossero un servizio perenne da adempiere, ma un pensiero che mi riporti a me stessa.

Perché sei triste? Che hai? Niente, rispondo quasi sempre. Via le lacrime, il crampo allo stomaco, e ricomincio: faccio. Annaffio le rose sennò muoiono, riordino i vestiti sennò c’è disordine, cucino sennò che si mangia, metto la carne nel freezer con il bigliettino sopra che indica di che si tratta, sennò va a male, tolgo la carne dal freezer la sera per il giorno dopo sennò non si può cucinare, apparecchio la tavola perché è più bella una tavola apparecchiata, rispondo al telefono al posto di tutti, che chissà perché sono sempre lontani e non sentono, faccio il cambio degli armadi.

E poi lavoro fuori casa: uno, due, tre lavori diversi. Faccio perché, mi dico, gli altri hanno bisogno di me, ma forse sono io che ho bisogno degli altri. E lavoro, lavoro, lavoro con o senza remunerazione. In casa o fuori casa lavoro quasi sempre a cose che in sé non mi piacciono e non mi interessano: bisogna fare, bisogna farlo. Perché? Delle giustificazioni, certo, me le do: i soldi da guadagnare o da risparmiare, i rapporti che bisogna conservare, gli appuntamenti che non possono e non devono essere rimandati, gli affetti da curare. E poi chissà: da un lavoro che non mi piace e non mi interessa, magari, mi dico, salta fuori un’altra cosa che potrebbe soddisfarmi. Oggi non va, ma domani….Domani, certo. Per adesso, per oggi, faccio. E non mi piace.

Guardo gli altri che non fanno, e li odio. Coltivo, sempre lì in fondo a non so dove, un antico e sedimentato rancore: io faccio e loro non fanno: loro dormono, pensano, dicono, mi dicono, e io faccio. E così come sembra (sembra) naturale a me, sembra anche a loro, agli altri, a tutti gli altri: fai un caffè, fai due fili di pasta, fai una telefonata, due telefonate, tre, ricordati di dire al tizio di scrivere a caio, fai. E io faccio. Sdoppiandomi: metà mia madre che ha vissuto sempre e solo per il fare, metà mio padre che ha vissuto sempre e solo per il pensare, ascoltare, leggere: metà verso una corsa  dopo l’altra, tante cose insieme non si sa perché, metà verso la lentezza; metà realizzazione e metà riflessione, voglia di farla finita con le cose e privilegiare il pensiero.

Chissà, forse per eliminare il fare dalla mia vita, dovrei eliminare gli altri: gli altri, l’altro, un altro o un’altra accanto a me, e subito scatta in me la molla del “cosa c’è da fare?”, “cosa posso fare per te?”. Forse dovrei stare da sola: e da quando la penso, anche senza pronunciarla, la parola solitudine mi dà la stessa fitta dolorosa del pensiero del non fare. Forse quando non ci sarò più tutti, o comunque quei pochi, mi ricorderanno per quel tanto che ho fatto, sempre, fino alla fine. Senza sapere che non lo volevo fare, che volevo essere altro da quello che sono effettivamente stata. Sono stata laboriosa, efficiente, rapida, piena di amici o almeno di buoni conoscenti, una donna di relazioni, come si dice. E avrei voluto essere, ma non sono stata capace di esserlo, chiusa nei miei pensieri, creativa per me, intollerante, selettiva, concentrata su me stessa, e quindi dura, cattiva con chi rubava il mio tempo e i miei pensieri. E invece, siccome i fatti contano, eccome se contano, molto di più dei pensieri e anche delle parole, la mia vita è stata questa. Fare

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