Cambiare musica

febbraio 17, 2017 § 3 commenti

Samba o Blues

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Seduto nel soggiorno, guardavo i suoi movimenti eleganti senza affettazione, una eleganza innata , addestrata e perfezionata e mai dimenticata.
Si muoveva sicura e sotto le sue vesti indovinavo i suoi fianchi , la sua carne soda, le braccia tornite. Pensavo ai mesi trascorsi insieme che erano passati veloci , intensi e a quel giorno in cui si era rotto qualcosa, ma era inevitabile , prima o poi doveva succedere, era solo questione di tempo .Fino ad allora avevo evitato di pensarci, lo avevo escluso dai miei pensieri ma quella frase gettata lì mi aveva creato un attimo di panico, avevo evitato la risposta , avevo preso tempo ma era come se si fosse evidenziata la data di scadenza e bisognava prenderne coscienza. La sentivo parlare, modulando la voce come se volesse compensare quel diaframma che era sorto tra noi , una sorta di disagio. Il ritmo del samba copriva i rumori di fondo era stato la colonna sonora che ci aveva accompagnato. Rispondevo con monosillabi alla sua conversazione , evitavo di guardarla negli occhi dove leggevo la sua muta domanda e a quella non avevo risposte era meglio rispondere a parole. La mia mente fuggiva lontano , non ero più lì forse sarebbe stato meglio che anch’io non fossi più lì.
Avrei evitato giustificazioni , scuse, omissioni, banalità ma qualcosa mi tratteneva , qualcosa che ogni giorno si assottigliava , si usurava, si logorava. Ogni volta che non riuscivo a distogliere lo sguardo e leggevo la sua muta domanda qualcosa insorgeva dentro di me , una sorta di rabbia verso me stesso , qualcosa che mi faceva domandare: “ma cosa ci faccio qua ?”. Il travaglio interiore proseguiva e il piacere di condividere si era trasformato in sofferenza. Una notte quel qualcosa si fece chiaro, nitido , scacciò il sonno e si trasformò in frenesia.
Buttai alla rinfusa le mie cose in una valigia .Scrissi alcune righe, perché a volte è più facile scrivere che parlare. Parole dure come pietre, forse per farmi odiare , forse per evitare che ci fossero ripensamenti, forse per evitare di farle ancora più male. Fuggii come un codardo verso approdi conosciuti, abbandonando un fuoco ormai spento che mi ghiacciava l’anima.

Avevo bisogno di “Blues” per ritornare ad essere in me.

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Nicaragua,I sogni non hanno confini

aprile 16, 2012 § 9 commenti

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Inverno, sono appena rientrato in Italia al termine di un contratto, giornate fredde, piovose. Passati i primi giorni a riallacciare rapporti e stanare amici caduti in letargo, mi dedico a qualcosa che mi piace. Ho recuperato un vecchio tavolino malridotto, ricoperto da svariate mani di pittura , ormai butterata e scalcinata e mi dedico al recupero. Sono convinto che nascosto sotto a quell’aria malconcia troverò qualcosa di piacevole. Un altro motivo è che mi piace usare le mani, avere il piacere di creare , di toccare un oggetto , di vederlo crescere , riprendere forma.
Sto aspettando un nuovo contratto, arriverà una telefonata di contatto, un nuovo lavoro , un nuovo paese, ma non ho premura . Questo mio vagabondare mi ha insegnato che la vita va goduta assaporata, e per farlo bisogna fare le cose che ti piacciono , anche le piccole cose . Prendere un aperitivo con gli amici, guardare il mare in burrasca, scivolare sulla cresta di una onda, scartavetrare un tavolino. Le mani si muovono a tempo di blues, nel mangianastri gira un pezzo e Clapton pizzica le corde facendo da base alla voce roca di BB king , non penso a niente , sento i nodi dei nervi che si sciolgono, le tensioni svaniscono, il legno si schiarisce, si leviga, certe incisioni sono profonde ma… le lascerò , danno la sensazione si una svisa sul manico di una chitarra con le dita che strisciano sulle corde ricavando un suono che sale di mezzo tono in mezzo tono.
La chiamata arriva , pochi accordi, e si riparte. In mezzo a questo gelido inverno il pensiero di un lavoro di circa un paio di mesi in Nicaragua mi sembra un miraggio, caldo , sole.
Distribuisco l’impregnante con lunghe pennellate, le striature si fanno evidenti, il legno si tinge , si scurisce, le note del blues riempiono l’aria e si mischiano con l’odore del diluente. Tiro la cera e il legno diventa caldo, la mano ci scivola sopra in cerca di asperità, mi trasmette un certo calore che schiarisce il cielo.
Butto un po’ di cose in una valigia, nella tasca metto un Walkman con la cassetta che ormai è la colonna sonora di questo momento.
Un volo come tanti ,atterro a Miami . Devo attendere il passaggio per Managua, mi guardo attorno e inizio ad entrare nell’atmosfera caraibica.
Vedo pelli con le varie tonalità, da quelle che sembrano solo abbronzate a pigmenti color caffè, e gli abiti si fanno colorati con accostamenti poco canonici.
L’aereo che mi aspetta ha un aspetto poco confortante e scalcinato, mi affido al fatto che il volo è relativamente breve , circa tre ore, e mi subentra un senso di rassegnazione…tanto non ci sarà di meglio…. Scendo a Managua , il caldo è liquido, pesante. Il corpo abituato all’aria condizionata fa fatica ad adattarsi, i vestiti si incollano, arrivo all’uscita come pressato da un peso insopportabile e un paio di persone sono ad aspettarmi. Prendono il mio bagaglio e lo buttano su un gippone posteggiato con il motore acceso, quando entro prendo un’altra mazzata…ho freddo. Tento di far alzare la temperatura inutilmente, il sudore mi si raffredda…iniziamo già bene!!!
Vengo accompagnato in una specie di Hotel residence e mi viene assegnato un appartamentino decente, guardando dalla finestra mi accorgo che non sono distante dal centro…bene.
Il lavoro , i primi giorni assorbe tutta la mia attenzione, lasciandomi solo il tempo di prendere alcune informazioni, voglio andare a fare il bagno nel Pacifico. L’autista del fuoristrada è disponibile a farmi da guida e mi prepara un piano comprensivo di visita a due vulcani e permanenza sulla spiaggia.
La strada nelle vicinanze della città è abbastanza ampia poi si trasforma e a tratti è sterrata, attraversa paesi dove sui muri si vedono i segni della guerra sandinista e noto che molti uomini sono armati di lunghi machete e alcuni nella cintura trattengono dei grossi revolver . I due grossi vulcani incombono su di noi e il fuoristrada si arrampica sulle pendici del primo , il più piccolo . Il cratere è vasto e desertico e dalla cresta si gode di un magnifico panorama che si estende intorno. L’autista ha una specie di frenesia e mi vuole portare a visitare il secondo decantandomi il lago interno. Il fuoristrada non riesce ad arrivare fino in cima e bisogna camminare una quindicina di minuti. La vista è mozzafiato, il lago ha un colore turchese che stacca sulle pareti scure, è di un colore così intenso che fa male agli occhi, cerco una zona d’ombra per ripararmi dal sole che scotta e mi siedo ad ammirare le nubi che si riflettono sulla superficie e corrono veloci spinte da un vento che non si sente.
Metto gli auricolari e BB King mi graffia i timpani, osservo il colore dell’acqua e quello del cielo ogni tanto entrano in fusione come se stessero facendo del sesso. Spettacoli come questi ti riconciliano con la vita, la musica da il ritmo al tempo e lo lascia scorrere senza fine. Scendiamo lungo la carretera in direzione del pacifico, ma abbiamo perso quasi tutto il giorno , mi piacerebbe arrivare in tempo per il tramonto sul mare.
Eccoci finalmente ,giungiamo ad un villaggio riparato dietro ad uno sperone. Scendo appena prima dell’abitato e mi incammino su una spiaggia nera, dura , compatta dove le orme fanno fatica ad imprimersi. Cammino lentamente riparandomi dal vento teso, i miei occhi seguono la direzione del sole che si sta inabissando lontano sull’oceano. Qui vicino all’equatore il tramonto è molto rapido e il sole si sta tuffando, mi sembra quasi di scorgere i gorghi e gli spruzzi biancastri che si elevano nell’aria come a spostarsi , come a lasciargli spazio e il sole si immerge come in una grande ferita e le acque si ritraggono sanguinanti portando il loro rossore a riempire l’orizzonte. La luce si affievolisce rapidamente e ritorno sui miei passi prima che l’oscurità mi avvolga e che il vento mi pieghi come i pochi arbusti che frusciano come anime nere. Raggiungo il fuoristrada , parcheggiato vicino a una delle prime casupole, dove il mio autista , Paco , mi sta aspettando e mi riferisce che ha trovato da mangiare e da dormire. Non faccio domande , come se avessi paura delle risposte, in effetti preferisco non sapere cosa può aver trovato a quell’ora e in così poco tempo. Nella casupola non c’è corrente elettrica , alcune lampade ad olio illuminano fiocamente l’interno, un fuoco scoppietta in una vecchia stufa dove una pentola emette dei sonori borbottii , il vento sulla spiaggia mi ha lasciato una sensazione di freddo in contrapposizione del caldo patito nella giornata.
Dopo pochi minuti la cena è pronta e una frotta di bambini si materializza mettendosi a sedere in un angolo. In una scodella si materializza una brodaglia dal forte odore speziato ho qualche attimo di titubanza ma decido di correre il rischio , nella borsa ho qualche pastiglietta che dovrebbe risolvere gli eventuali problemi.
Il gusto è buono anche se un po’ forte, segue un piatto di pesci che hanno un gusto strano, leggermente amarognolo, rifiuto di bere l’acqua e mando Paco a prenderne una bottiglia in macchina. Insieme all’acqua butto giù un paio di pastiglie , non voglio avere sorprese. Come erano apparsi i bambini spariscono e ci attardiamo a fumare seduti intorno al tavolo e Paco tiene banco in una conversazione che ha tutta l’aria di un monologo, mi accompagnano in una stanzetta con un lume , ma non voglio vedere niente , voglio solo dormire. La mattina è luminosa il vento è sparito il caldo appiccicoso, la spiaggia è un po’ meno nera della sera precedente ma in compenso mi rendo conto che è una striscia molto lunga di cui non si intravede la fine. Le onde vi si buttano a capofitto come a cercare di ghermire le piccole sfere di lava che rotolano senza fine, l’acqua è fredda ma fuori la temperatura è elevata e per poter resistere bisogna fare frequenti immersioni.


La mattina corre veloce , ma non mi sento a mio agio, mangiamo un piatto di pesce fuori dalla casa e saldo il mio conto veramente irrisorio e lasciamo questo posto che non mi ha lasciato nulla se non lo splendido tramonto. Sulla strada del ritorno mi prende il pensiero che domani si ricomincia e cerco di scacciarlo con un sonnellino , impresa epica visto come sono sbattuto da una parte all’altra , con il fuoristrada che salta da una buca all’altra.
Una sera che stavo gironzolando senza meta nei pressi del mercato, aspettando che giungesse l’ora per andare a cena, osservavo le evoluzioni di un carretto in mezzo alle varie ceste posate alla rinfusa. Era trainato da un ragazzino piuttosto esile ma nonostante ciò il movimento era piuttosto rapido e deciso , veniva verso di me e mi sono fermato per seguirne il percorso, pochi metri prima di raggiungermi ,una ruota si impuntava in un pezzo di marciapiede sbrecciato, una stanga lo colpiva nel polso e il carretto perdeva parte della mercanzia. Intorno nessuno sembrava curarsene e il ragazzino tentava faticosamente di rimettere i sacchi sul carretto ma sulla faccia si vedevano evidenti le smorfie di dolore ogni volta tentava di usare il braccio colpito. Mi sono avvicinato , ho buttato i pochi sacchi rimasti a terra e senza parlare mi sono messo ad aiutarlo a spingere il carretto .

Dopo qualche decina di metri siamo giunti a destinazione e il ragazzino a consegnato il carretto ad una donna con il lineamenti da india che gli ha borbottato di scaricarlo. Lui le ha mostrato il polso che ormai era gonfio come un pallone e lei sempre borbottando si è messa a spostare i sacchi, io mi sono avvicinato e le ho chiesto se potevo accompagnare il ragazzino all’ospedale….lei mi ha guardato e con una espressione con un chiarissimo ..chi se ne frega…ha praticamente acconsentito. L’ospedale non era molto distante , ci ero passato qualche volta davanti, e lo raggiungemmo rapidamente. Alla reception c’era un fattorino in una uniforme che sicuramente aveva avuto tempi migliori, cercavo di farmi capire che avevo bisogno di un medico, gli mostravo il polso del ragazzino e lui mi indicava delle panche appoggiate a un muro dove sedevano alcune donne coperte da scialli multicolori. Io non volevo passare la sera ad aspettare e alzavo le voce ripetendogli che avevo bisogno di un medico e non volevo aspettare, lui insisteva a mostrarmi le panche e allora prendendo il ragazzino per il braccio sano mi sono avviato verso la corsia con il fattorino che a quel punto cercava di fermarmi , ed era lui ad alzare la voce . Ero già a metà corridoio quando una giovane donna con il camice si avvicinava verso di me cercando di capire cosa stava succedendo.
Non era una locale , aveva la pelle chiara e una massa di capelli rossi e un paio di occhi molto chiari, prima si rivolse al fattorino con uno spagnolo dall’accento inglese zittendolo, poi si rivolse a me in inglese per domandarmi il motivo del mio ingresso. Io le mostrai il polso del ragazzino che oltre ad essere gonfio era anche bluastro, come le dissi che ero italiano si rivolse a me in un italiano stentato e mi spiegò che lei era la radiologa e che avrebbe fatto immediatamente i raggi al polso e di aspettare. Poco dopo mi raggiunse e mi invitò nello studio medico dove mi presentò un giovane medico italiano, Vincenzo , che lavorava per una ONG . Vincenzo controllò i raggi , mise in atto una steccatura al polso del ragazzino , una puntura di antidolorifico , una serie di pastiglie e lo mandò a casa , aveva finito il turno e lo invitai a bere qualcosa. Aspettammo la radiologa e ci avviammo verso un bar, che diventò il nostro luogo di incontro. La dottoressa si chiamava Kathe , anche lei lavorava per la stessa ONG e avevano fatto il corso preparatorio a Miami e si vedeva chiaramente che tra loro era sorto qualcosa di più di una semplice amicizia. Mi invitarono a casa loro per la cena il sabato successivo. Mi presentai armato di un paio di bottiglie e di un mazzo di fiori per la padrona di casa, mi misero subito a mio agio. La casa era arredata con semplicità e vi era nell’aria qualcosa di provvisorio, come se non avessero voluto personalizzarla, avessero voluta renderla anonima in modo di avere chiaro il concetto che avrebbero dovuto abbandonarla una volta terminato il loro tempo di permanenza. Notai con una certa perplessità che i coperti erano quattro e come per rispondermi il trillo del campanello introdusse l’ospite. Era una giovane donna di età indefinita che mi presentarono come la dottoressa Oriella , lavorava nella stessa organizzazione ma era già al terzo rinnovo di permanenza. Era specializzata in Otorinolaringoiatra e proveniva da un paese vicino a Piacenza che aveva lasciato dopo la morte dei suoi genitori. Dopo questa breve introduzione si chiuse in una riservatezza imbarazzante. Dopo cena mentre sorseggiavamo un liquore , mi chiese che lavoro facevo….Alla mia risposta seguì un silenzio quasi sospetto, poi come se avesse meditato Oriella improvvisamente si fece seria e mi raccontò una cosa che suona più o meno così.
Uno strano racconto
Era andata via la luce. Ancora una volta al buio.. Il buio lì intorno , alla periferia di Managua era proprio nero, denso, senza luna, senza bagliori. Quella sera nella sua casa di un solo piano, circondata da alberi e arbusti, alcuni piantati e altri infestanti, era sola. Fuori l’aria era ferma, non il solito venticello della sera. Forse qualche topolino, di quelli che si nascondevano dietro la credenza, stava trovando il coraggio di fare una passeggiata alla ricerca di qualcosa di meglio dei pochi biscotti secchi che aveva comprato qualche giorno prima. Il fruscio l’avrebbe fatta trasalire. Il gatto con disappunto scese dalla sua sedia preferita e si strusciò alle sue gambe. Aveva percepito qualcosa, ma sembrava non esserne sicuro. Al suo paese , nei pressi di Piacenza, lei avrebbe guardato fuori della finestra per vedere se dalle case accanto filtrasse la luce. Allora si alzò e aprì la porta d’ingresso che dava direttamente sulla strada. L’aria densa e ferma era fresca. Il fascio di luce di una camionetta che passava illuminò la signora della casa di fronte, anche lei sulla porta a chiacchierare con la figlia. Vide un militare che passava con il suo zaino in spalla, che forse era sceso dalla montagna e stava facendo ritorno al comando della Regione e una ragazza con in mano il contenitore del latte. Sicuramente era di ritorno dalla casa di dietro dove anche Oriella lo comprava. Le sembrò di sentirsi più sicura con la porta aperta e tornò a sedersi ad aspettare che tornasse la luce.
Ricordava che, fin da bambina, aveva sempre voluto e forse dovuto sperimentarsi con le situazioni difficili.
Lei, bambina di cinque anni, come tutti i bambini, aveva paura del buio e soprattutto di rimanere sola al buio, ma non avrebbe mai potuto darlo a vedere, anzi non poteva neanche confessarlo a se stessa. I suoi genitori pretendevano da lei sempre un comportamento da grande e i grandi, si sa, non hanno mai paura del buio oppure di rimanere da soli! Ora i suoi erano morti e non pretendevano più nulla da lei.
La sua non era una vera e propria paura: era, per quello che ricordava, una specie di apprensione, di inquietudine, come quella che prende quando s’ha l’impressione che qual cosa di brutto possa verificarsi da un momento all’altro.
Allora in quella grande casa di paese con le finestre addossate alla casa vicina e da dove filtrava poca luce, giorno dopo giorno, nelle ore di pausa dalla scuola, aveva cominciato a costruirsi una storia. Aveva un amico invisibile , molto più affidabile degli animali che aveva come compagnia. Era sempre con Lei , obbediva ai suoi voleri ma un giorno non riuscì più ad immaginarselo e pensò di essere diventata cieca almeno nella fantasia. La paura la pervase e …. se un giorno fosse diventata cieca certamente avrebbe dovuto muoversi al buio, anche da sola, ne sarebbe stata obbligata e la paura sarebbe scomparsa come per magia. A pensarci bene, non aveva mai conosciuto nessun bambino cieco e suo nonno portava solo un cerotto per tenere alzata la palpebra sinistra. Sapeva che i ciechi erano malati e non ci vedevano e, secondo lei, era come se avessero gli occhi sempre chiusi. Così aveva provato a chiudere gli occhi: lo aveva provato tante volte. Sì, era come stare al buio!
Non era sicura che sarebbe diventata cieca. Fino ad allora non aveva mai sofferto di malattie più gravi della febbre per la tonsillite, eppure, di tanto in tanto, la coglieva quello strano stato d’ansia: come avrebbe potuto prepararsi a muoversi al buio senza paura? Come avrebbe potuto prepararsi a non avere paura del buio dei ciechi? Anche senza le malattie, un giorno, forse, avrebbe potuto non vederci più. Sarebbe diventata cieca e sarebbe rimasta al buio per sempre. Paralizzata dalla paura!
Come avrebbe potuto, allora, muoversi nel mondo senza avere paura?
Come avrebbe potuto continuare a fare le cose di tutti i giorni senza vedere?
Con i brividi che le correvano sulla schiena e la pelle d’oca sulle braccia, ora ricordava bene il momento in cui aveva deciso di allenarsi. Sì, si sarebbe allenata per essere pronta a non aver paura nel caso fosse diventata cieca. Si sarebbe allenata a camminare ad occhi chiusi anche di giorno e anche di notte. Quella sventura che le sarebbe potuto capitare tra capo e collo non l’avrebbe trovata impreparata!
Il buio era denso, avvolgente, freddo. Lo sentiva sulla pelle delle mani e quasi pesava sulla maglia e sui calzettoni. Nel buio le scarpe sembravano più strette, piene di piedi. Era ruvido come le pareti che andava toccando per orientarsi nella stanza, ma a volte anche liscio e freddo come quando toccava la porta o sedeva per terra. Era pianeggiante, consistente e senza ostacoli come il pavimento che toccava con la pianta dei piedi, ma era anche duro e compatto come lo scalino che incontrava con la parte superiore della punta dei piedi. Il buio era anche l’ostacolo morbido dove inciampare sull’orlo del tappeto e la terra che ti mancava sotto quando scendeva per le scale. Il buio era il dolore al ginocchio quando inciampava nella sedia. Il buio era viscido quando il cane di zio Tommaso le mollava una leccata e ovattato quando il gatto a casa di nonna le veniva in contro. Nel buio i suoni erano rumori o musiche lontane.
O …forse , siamo tutti ciechi …perché non riusciamo a vedere nell’animo di chi ci sta vicino

Sogni ed altro
Qualche volta ci trovavamo nel locale vicino all’ospedale , veniva anche Oriella ma stava sempre immersa nei suoi pensieri, Kathe era molto più brillante, sicura e immaginava il suo futuro di medico. Vincenzo e io la stavamo a sentire finché una sera mi annunciò che sarebbe volata fino a casa a Miami e si sarebbe fermata per qualche giorno e Vincenzo mi invitò ad una escursione che aveva programmato da tanto tempo ma non era riuscito ad effettuare. Si trattava della discesa di un fiume in barca fino al Mar dei Caraibi. Il mio lavoro volgeva quasi al termine ed accettai con entusiasmo.
Partenza alle prime ore dell’alba, ci dirigiamo verso la città di San Carlos che sonnecchia artigliata al letto del fiume St Juan le cui acque vanno a mischiarsi alla foce con il mare dei Caraibi. Contrattiamo con un barcaiolo il passaggio , la sua faccia sembra di cuoio conciato, non mostra il minimo interesse alla cosa, intasca i soldi pattuiti e ci fa sedere a poppa. Siamo partiti , ci vorranno due giorni e dovremo dormire sul fiume , ci rilassiamo e lo sguardo corre sulle rive. Il barcaiolo comanda sicuro il timone e si porta al centro della corrente per sfruttarne la spinta. La vegetazione intorno è rigogliosa interrotta solo dai campi coltivati. Sulle irte pendici ci sono fitti bananeti per poi lasciare il posto a coltivazioni di caffè e di canna da zucchero. Il fiume si allarga e si restringe con zone di calma e di correnti veloci . Pur essendo il paesaggio molto vario dopo qualche ora ci prende una certa sonnolenza che viene interrotta da un pezzo di pane con qualche pesce salato e da alcune banane fritte. Sopraggiunge il buio e il barcaiolo ormeggia in una ansa tranquilla, scende a terra raccoglie un po’ di arbusti secchi e mentre ci sgranchiamo le membra , accende il fuoco.
La cena è frugale e non da spazio a chiacchiere, mentre ingurgito una brodaglia piccante sento scorrere l’acqua del fiume , nell’aria si sentono versi di uccelli notturni. I miei occhi cercano i contorni del bosco che faceva da confine a questa piccola radura . Le fiamme del fuoco da campo cercano di squarciare le tenebre sempre più fitte e il barcaiolo accende una lampada ad olio e la posa sulla barca per poi distendere una zanzariera, è il segnale che dobbiamo andare a dormire. Posiamo i nostri sacchi a pelo sul fondo della barca e ci appoggiamo sui bordi per fumare, l’acqua ci dondola dolcemente. Vincenzo incomincia a raccontarmi della sua vita. Nato in Puglia da una famiglia modesta percorre tutte le tappe che lo portano fino all’università che decide di frequentare a Ferrara ,perché una sua zia vive lì vicino e lo può ospitare. Laureato in medicina si inserisce nella specializzazione di pediatria in un grande ospedale dove ottiene anche un posto fisso di vice primario ma non si sente a suo agio. Lontano dalla famiglia , accoppiato ad un carattere introverso , si trova spesso in situazioni di solitudine . Il suo pensiero corre ad una ragazza che frequentava il suo liceo della quale era stato invaghito senza mai aver avuto il coraggio di dichiararsi…chissà forse adesso che era quasi affermato avrebbe avuto la forza di farsi avanti.. Il suo sogno era di dirigere una clinica specializzata nella sua città natale . Aiutare i bimbi a risolvere i loro problemi di salute . Dare un punto di riferimento al suo Sud bistrattato. Il tempo passava e l’occasione era di la da venire, poi il suo contatto con questa ONG che gli permetteva di dirigere un ospedale , di farsi una esperienza non comune e poter ritornare al suo paese con dei titoli che avrebbero potuto permettergli di coronare il suo sogno. Le parole correvano lente e fluenti come le acque del fiume rischiarate dalle stelle , le braci delle sigarette sembravano fari nella notte, i sogni sembravano fluttuare e alzarsi nel cielo. Prima di dormire attaccai la mia musica e Clapton scandiva il ritmo dei miei pensieri e pensavo ai sogni di Vincenzo che tra poco si sarebbero tramutati in una bella realtà. Il chiarore del mattino ci penetrò sotto le palpebre , una densa nebbia copriva la porzione di cielo sopra di noi , il barcaiolo stava accendendo nuovamente il fuoco con appeso sopra un bricco di caffè. La discesa proseguì rapida tra quelle sponde incantate e ci scambiammo solo poche parole come se tutto quello che c’era da dire fosse già stato detto. La sera arrivammo al mare dei Caraibi ma il tempo era finito e un autobus scassato ci riportava su a Managua e il viaggio era lungo Arrivammo nella notte inoltrata e ci salutammo e ognuno si avviò verso la propria casa. Il lavoro attraversava una fase che mi lasciava pochi spazi perciò trascorsero alcuni giorni senza poterci frequentare. Una sera ci incontrammo al solito locale, Kathe che era rientrata da Miami , mi sembrava spumeggiante più che mai, teneva banco e mi invitò per la sera successiva a cena da loro, perché aveva delle novità importanti da comunicarci . Invitò anche Oriella che sembrava recalcitrante ma che dovette soccombere dopo molte insistenze.
La sera dopo , c’era qualcosa di strano nell’aria, Vincenzo non alzava gli occhi , Oriella era chiusa in un mutismo assoluto, Kathe era incontenibile.
Verso la fine Kathe mi comunicò la novità , dopo una settimana avrebbero finito la loro permanenza , Lei e Vincenzo sarebbe rientrati a Miami dove suo padre aveva costruito un nuovo padiglione in aggiunta alla sua clinica e questo padiglione era di pediatria e Vincenzo ne sarebbe stato il primario.
Oriella mi guardava fisso negli occhi , senza nessuna espressione, Kathe era la felicità in persona, Io non riuscii a complimentarmi con lei e mi limitai ad alcune frasi di circostanza che la lasciarono leggermente perplessa ma solo per qualche attimo ma era talmente piena di se che passò subito ad altro. Trovai una scusa per andarmene rapidamente , mi sembrava di assistere ad una scena dove una bimba incosciente prende a martellate lo specchio dei sogni riducendo i frammenti in pezzi così piccoli che non si possa ricostruire neanche la più piccola immagine.
Alcuni giorni dopo incontrai Vincenzo e Oriella , lui faceva discorsi banali come se avesse vergogna di aver condiviso con me i suoi sogni e che io fossi un testimone scomodo che assistevo alla sua resa. Restai qualche minuto con Oriella e prima di salutarci lei mi disse : “ Un uomo non dovrebbe mai permettere che qualcuno lo allontani dai propri sogni, i sogni possono rimanere sogni per tutta la vita , ma gli deve rimanere la possibilità di sperare che il sogno si avveri”.
Ma quali sono i tuoi sogni………..”Io sto vivendo il mio sogno”
Da allora non ho più visto nessuno di loro ..ma ogni tanto un sogno lo vivo anch’io

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