Nukus – Uzbekistan
giugno 10, 2012 § 12 commenti
Foto presa dal sito…e per approfondimenti
Nukus – Uzbekistan
– Un lavoro a Nukus o meglio nelle vicinanze-
– Scusa ma dov’è Nukus?-
– Nella repubblica autonoma del Karakalpakstan , in Uzbekistan-
– Bene adesso è tutto chiaro , ne so quanto prima –
La conversazione continua addentrandosi in particolari tecnici e tempo di permanenza , breve , per fortuna . Non so se ho voglia di accettare , non mi entusiasmano queste ex repubbliche russe , in effetti non ne so molto anche se in un paio ci ho già lavorato.
Del Uzbekistan so solo che ci sono Samarcanda e il Mar d’Aral che hanno fatto parte dei miei giochi da bambino e delle mie fantasie da adolescente . Camminavo nel più grande suq dell’Asia dove comperavo un cavallo bardato di tutto punto e mi avventuravo nel deserto arrivando sulle sponde del più grande mare interno e li mi imbarcavo su una nave dove liberavo una splendida fanciulla presa prigioniera dai nemici del Grande Tamerlano. Queste fantasie erano alimentate dai racconti della zia Giusy grande conoscitrice del “Milione “ e quando ci raccontava del grande viaggio infarciva i suoi racconti con episodi fantastici.
Tutto questo pensare mi fece decidere di accettare quel lavoro , forse avrei potuto vedere almeno uno di quei posti .
Pochi giorni dopo era tutto pronto, documenti vari per l’ingresso e lettera di presentazione e biglietti .
Viaggio piuttosto impegnativo , con vari scali e in aeroporti fatiscenti , macchina allo scalo finale , Nukus , che mi porta in città. Arrivo in mattinata e il tragitto mi fa capire cosa troverò .Delusione anche se non so cosa di diverso mi sarei aspettato ma ha tutto un aspetto così sciatto e scialbo . Gli uomini sono vestiti in varie fogge asiatiche , alcuni hanno un copricapo per lo più di forma mussulmana e le donne sono coperte da scialli. Non ho avuto modo di prendere informazioni perciò mi è quasi tutto alieno.
La città almeno per quello che ho visto è brutta , lo stile è quello sovietico, con palazzoni grigi e con le finestre senza scuri. Scopro che la città è relativamente recente , hanno iniziato a costruirla nel 1932 pianificata dal regime , solo una piccola parte già esistente ha qualche importanza storica.
L’albergo è un rudere ,che mostra qualche piccolo particolare di vecchi fasti ,dove non funziona praticamente nulla. La sera a cena vengo informato che la base dove dovrò lavorare si trova ad un centinaio di Km più a Nord vicino al Mar d’Aral. Dato che il mare si è ritirato sono venuti alla luce dei giacimenti di gas che ora stanno sfruttando. La persona che mi parla mi informa che il mare ha un ciclo di 40 anni che prima si ritira e poi ritorna . La cosa mi lascia perplesso , io avevo sentito che lo sfruttamento dei fiumi che alimentavano questo lago salato aveva ridotto la portata d’acqua e la dimensione si era ridotta notevolmente.
La mattina mi vengono a prelevare e parto verso al mia meta , il paesaggio che si presenta è prima ricco di vegetazione poi dopo qualche chilometro inizia una distesa di campi di cotone a perdita d’occhio , la terra è grigia sembra malata, triste, un vento polveroso avvolge tutto. L’ultimo tratto di strada corre in un deserto di sabbia con solo il vento a fare da padrone, desolante .
I primi giorni il lavoro mi assorbe anche se è dura tenere sempre la maschera antipolvere e gli occhialoni tipo motociclista , la polvere è da ogni parte , si intrufola sotto i vestiti , da prurito , per levarla non basta una doccia veloce, spesso per avere la sensazione di essere pulito si ripete la doccia. Quando si termina di lavorare vado nel fabbricato che ci ospita e dove si svolge tutta l’attività extra lavoro . Lì abbiamo le nostre camere , c’è la mensa ed alcune sale che dovrebbero essere ricreative e di socializzazione anche perché non puoi uscire , la polvere è onnipresente.
Li sera per sera scopro una amara verità, il mare si è ritirato per la pianificazione voluta da Mosca che ha realizzato canali di irrigazione per le vaste distese di campi di cotone di cui l’ Uzbekistan è diventato il maggiore produttore mondiale ma non ha tenuto conto della vita che si svolgeva sul grande mare. I pesci sono morti ,i pescatori sono ridotti sul lastrico , hanno perso le navi , il clima è cambiato …il mare sta morendo . Anche il kazakhstan ha fatto la sua parte sfruttando il fiume che scorre sulle sue terre , come le altre nazioni che gravitano nella zona.
I vari congressi promossi per salvare il mare sono stati vani ,non si trovano accordi, la guerra per l’acqua va avanti da decenni e il mare muore.
Voglio vedere questo scempio .
La città di Moynaq , che era il maggior porto di pescherecci, dista qualche decina di km devo andarci e organizzo per il primo giorno di riposo ma vengo sconsigliato caldamente :
“non c’è niente solo sabbia e rottami arrugginiti”
“voglio vedere con i miei occhi, voglio sentire cosa si respira”
“respiri la stessa polvere tossica di qui ”
“Tossica? “
“Si, un misto di sabbia ,sale , pesticidi, DDT, e probabilmente qualche scoria batteriologica di esperimenti russi”
“Cazzo”.
Salgo nella mia stanza e vedo di reperire informazioni, cazzo è tutto vero stanno uccidendo un mare e le popolazioni che stanno li intorno senza la minima preoccupazione , la situazione è impressionante ma non recedo devo andare.
La mattina l’autista con il gippone mi aspetta con la faccia imbronciata , probabilmente avrebbe preferito passare la giornata a giocare a carte e non certo ad accompagnarmi nel nulla.
Il paese è un piccolo assembramento di casupole di cemento e lamiera si vedono ancora le grandi strutture per la lavorazione e conservazione del pesce che sono state cannibalizzate per recuperare lamiere di copertura e riparo . Scendiamo per una strada sconnessa che portava al porto, si vedono ancora le massicciate ma acqua niente , è ancora più impressionante di come lo avevo immaginato, la polvere volteggia in modo perpetuo , i bambini giocano con una bottiglia di plastica prendendola a calci con la bocca avvolta da stracci. Come si fa a vivere in un posto così?
Io non ho idea di come fosse prima ma mi immagino una vita portuale ,navi ancorate , movimento ,gente dedita ai lavori più svariati. Adesso solo facce scure ,solo vecchi e bambini , qualche donna infagottata.
La macchina si avvicina a quello che era stato un porto, mi avvolgo una specie di sciarpa intorno alla bocca e scendo , mi appoggio a una ringhiera arrugginita , il mio sguardo corre sulla desolazione ,il paesaggio appare spettrale. Si vedono le sagome dei pescherecci insabbiati come lapidi di un cimitero alieno. Cammino lentamente sul molo come in trance , a pochi metri dalla massicciata c’è una imbarcazione disposta come se un gigante ci avesse giocato e poi stanco l’avesse abbandonata li .Si trova in basso rispetto a me e sulla prua vedo qualcosa che assomiglia ad un fagotto , la ruggine e il sale ha mangiato tutto, le lamiere di copertura sono strappate e sottili ,traforate come trine . Mi sposto per vedere meglio, il fagotto è un vecchio con una logora giubba militare di un colore indefinibile e trapuntata di rammendi , le gambe sono coperte da un pezzo di telone dal quale spunta una vecchia scarpa, sulla bocca un pezzo di tela a quadretti grigi. La pelle sembra una ragnatela , grigia e gli occhi sono socchiusi e guardano dove una volta l’acqua rifletteva il sole.
Sta immobile come una statua sul viso grigio solo due solchi scendono su quella striscia di viso… la sola acqua dell’Aral. Mi si è stretto il cuore non riesco a sopportare quella vista , quell’immagine esprime tutto il dolore possibile per un mare che muore e mille e mille vite che si spengono. Sono tornato indietro , volevo andare via lontano , ma una volta salito ho chiesto al driver che trovasse una strada per scendere sul fondo del mare . Cazzo ero li , volevo camminare sul fondo del mare , volevo raccogliere mele verdi dal fondo del mare.
Il gippone si muoveva lentamente , gira intorno a pozze secche , il driver aveva paura di insabbiarsi, la polvere vortica , il paesaggio è lunare, il mio cuore è stretto come in una morsa …lacrima. Ci inoltriamo sul fondo del mare , indico al driver un peschereccio a qualche centinaio di metri , sembra una barchetta , mentre ci avviciniamo si ingrandisce, il tempo scorre come sospeso, l’ululare del vento copre il rumore del motore. Mi sembra di essere sul modulo lunare, a pochi metri si arresta , mi preparo a questa uscita nello spazio, indosso gli occhialoni, mi sistemo l’elastico, avvolgo la sciarpa sulla testa e la faccio passare sulla bocca. Chiudo bene la giacca e alzo il bavero ,indosso il mio scafandro sono pronto per la missione.
Scendo velocemente incurante di quello che sta biascicando l’autista, sbatto la portiera faccio alcuni passi verso la fiancata corrosa. Mi guardo intorno ed è uno spettacolo che non dimenticherò mai , la presunzione degli uomini ,l’assenza di scrupoli, la ricerca di profitto ad ogni costo , tutto questo ha portato al più grande disastro ecologico che si possa immaginare ,uccidere un mare , annientarlo.
La mia mano si posa sulla lamiera consunta , la sento abrasa come sabbiata , miliardi di granelli l’hanno colpita ed ognuno ha creato un microscopico danno .Quella barca che ha solcato le acque che ha trasportato uomini al lavoro , che ha pescato tonnellate di pesce , che ha sfamato famiglie ora è li morta come tante altre aspettando che il vento termini la sua impresa e la trasformi in polvere, annullando dalla visione quelle sagome nere , quelle vestige di un passato che non tornerà più.
Oppresso da una tristezza senza fine risalgo sul gippone e chiedo al driver di tornare alla base.
Questa esperienza è stata una sofferenza ma la ritengo necessaria perché certe cose ti rimangono dentro e sono quelle che ti cambiano la vita la fanno deviare leggermente e ti fanno apprezzare dove vivi e quello che hai ma ti fanno capire che le opere dell’uomo devono avere un limite .
Dopo essere stato li mi rendo conto che non avrei potuto rinunciarvi , un bagno nel mare della nefandezza umana e non ho raccolto nemmeno una mela verde.
Ho terminato il lavoro senza neanche più pensare a Samarcanda , chissà come l’hanno ridotta .Non hanno solo ucciso un mare o distrutto un mito di città hanno ucciso il ricordo di una estate della mia vita di bambino dove su un vecchia Graziella scassata vagavo per le vie di Samarcanda come sulla sella di uno splendido destriero e tra le pozze del fiume combattevo sulle sponde del Mare d’Aral .
Cazzo non si uccidono i sogni …chissà cosa ne pensa il Grande Tamerlano?
L’ultima luce
marzo 13, 2012 § 16 commenti
I passi si inseguono posandosi
su ciappe consunte mentre la mente
vaga lontana cercando di mettere
a fuoco la tua immagine.
Non conosco i tuoi pensieri
e, quasi, non ricordo il tuo viso.
I tuoi occhi non riflettono
la luce opaca di Genova:
sembrano vedere il mare
per i suoi colori
mentre i miei, da sempre,
vedono il volo triste dei gabbiani
e le navi allontanarsi,
in una scia di fumo.
Come intorpidito
esco dal ventre lurido
della città di notte.
L’odore della metropoli
mi rimane dentro,
s’aggrappa ai ricordi
e mi ferisce al cuore.
Credevo di trovare
la luce tenue del mattino,
o la foschia dell’alba.
Invece, ancora nel buio,
scorrono le vestigia di questa Genova
che mi avvolge come un grembo materno.
Penso a quando ti rivedrò, cerco la luce, il mare.
Starò peggio, sarà ansia e dolore.
Sarà una gogna, e quasi ne sorrido,
perché ho bisogno d’ironia
se la felicità è un lusso
che non mi è concesso avere.
Sederemo vicini su quella scogliera
che argina il mare.
Ma non ti dirò il mio passato
né svelerò il mio segreto,
guarderemo lontano anche quello
che possiamo solo immaginare,
perché da qui possiamo vedere
la morte del sole e sentirne il freddo strisciante,
e da qui, stringendo gli occhi contro l’ultima luce,
posso guardare il tuo viso,
imprimerlo nella mia mente
perché sia reale e non si perda
fugace nell’oblio di un soffio caldo
di lenzuola cincischiate.