Jolanda

aprile 19, 2012 § 24 commenti

Piccola serie di racconti : “Donne si raccontano”

Jolanda   Quando avevamo le mani

 

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Dalla clava in poi gli uomini hanno sempre avuto bisogno di protesi: bastoni, zappe, falci, martelli, e poi pistole, fucili, mitragliatrici, cannoni, automobili. Date a un uomo una protesi ..e solleverà se non il mondo, sé stesso.

Noi donne, no, noi donne abbiamo fatto fino a oggi tutto e sempre con le mani: con le mani abbiamo piantato, raccolto, pulito, cucinato, cucito, ricamato, lavorato a maglia, e anche curato, accarezzato. Fino a oggi.

Mi piace lavorare con le mani, con le mani hai sempre il contatto con la realtà, le mani sanno sempre, toccandolo, quello che può far bene o far male.

A me, anche a scuola, quando ancora c’era l’ora settimanale di economia domestica, hanno insegnato a lavorare con le mani: duellavo con l’ago e la matassa dei fili colorati da cui finì con l’uscire un improbabile centrino a punto croce che ancora esiste, in fondo a qualche cassetto.

Con le mani ho vissuto e lavorato per i due terzi della mia vita. Ero poco più di una bambina, era l’immediato dopoguerra, povero o poverissimo per noi, la mia famiglia, come per tantissimi altri. Vivevamo in un seminterrato e su un malfermo tavolo di cucina, facevamo in casa, con la nonna, la pasta che non potevamo comperare già fatta, o forse neanche si trovava: avevamo anche imparato a fare le penne. La nonna tirava la pasta, io la tagliavo a quadrettino, poi mettevo ogni quadrettino di sbieco, facendolo diventare un rombo, e lo arrotolavo intorno al manico di un mestolo di legno.

Mi fanno tenerezza quelle penne, quando le ripenso nei grandi piatti bianchi, ricoperte di sugo e un pizzico, solo un pizzico di parmigiano, anche quello grattugiato a mano: di più non si poteva, non si doveva.

Sono passati gli anni. Ho lavorato tantissimo a maglia: il completo di lana color albicocca, maglietta e sacchetto con i bottoni da allacciare sulla maglia, per il vestitino, fuori regola e fuori norma, con il quale è stata battezzata mia figlia; il golfino bianco con i bordi verdi e rosa, che è stato il primo indumento indossato da mio figlio quando è nato, ed era cianotico perché aveva rischiato di morire strozzato dal cordone ombelicale. Ho cucinato, continuando a tagliare a mano gli arrosti perché il coltello elettrico mi ha sempre fatto paura.

Adesso devo arrendermi: mi hanno detto e ridetto che non posso esistere, non posso continuare a vivere e lavorare senza protesi. Come gli uomini, anch’io devo sforzarmi di diventare tutt’uno con le protesi: cellulari, personal computer, stampanti, macchine per pensare o per fare la crema e la minestra di verdure. Anche in macchina non posso tirar giù il finestrino a mano: devo premere un tasto, la freccetta a destra per abbassare, quella a sinistra per alzare il vetro. E se sbaglio, i finestrini si alzano e si abbassano tutti insieme. Io che ero abituata a misurare il valore di quello che facevo dalla fatica, anche fisica, che mi costava, devo “riciclarmi” invece di comandare le mie mani, devo imparare a comandare una serie di tasti. Mi piaceva andare a chiedere gli orari dei treni in agenzia: era un modo per fare due chiacchiere con quel ragazzo sempre un po’ distratto o con quella bella ragazza dai capelli neri e l’aria gentile, adesso mi dicono che c’è tutto su Internet, pigi un po’ di tasti, devi solo ricordarti quali sono quelli giusti, ed ecco fatto.

Scrivo: mi piaceva – ai tempi della scrittura a mano o al massimo a macchina con il rumore infernale dei tasti quando li premevo di più perché rispondessero alla pressione interna dei pensieri e delle passioni che mi spingevano a scrivere – toccare la carta, i fogli, e mi piaceva, nonostante la fatica anche fisica e il disordine che procurava sul mio tavolo, tagliare i fogli a metà per eliminare, fisicamente, le cose, i pensieri, che, dopo averli scritti, non mi somigliavano più e per giorni e giorni lavoravo a quello che definivo il “taglia e incolla”, un racconto, una lettera, un articolo come un vestito su misura per una sarta.

Tutti e due i miei figli volevano far  diventare una professione la loro passione per il disegno, hanno combattuto per anni per imparare a disegnare, disegno geometrico e dal vero: Adesso hanno affidato a una discarica i tavoli da disegno: devono solo imparare a spingere dei bottoni, quelli giusti. Mio figlio, che è un uomo, lo fa con una grande felicità: ha la sua brava protesi a disposizione, lui comanda, lei obbedisce. Mia figlia, che è una donna, non lo dice perché non si deve dire, è politically incorrect, e però la verità è che si è solo rassegnata: avrebbe voluto che la sua protesi al massimo fosse una matita da tenere in mano, con la quale non impartire ordini, ma toccare concretamente dei fogli sui quali imprimere, non il segno realizzato dal comando di un computer, ma il proprio segno, la pressione che doveva passare direttamente dalla sua testa, forse dalla sua anima, al braccio e alla mano.

Mia madre ricamava. Ho ancora in un sacchetto in fondo al mio armadio il suo ultimo ricamo rimasto a metà: un centrino a filet, che lei realizzava con un certo tipo di aghi lunghi dalla cruna ovale, passando e ripassando intorno a un ordito di piccoli chiodi su un telaio di legno. Ho i sacchetti di perline colorate con le quali realizzava un numero spropositato di borsette da sera a righe, stelle e fiori, che poi, per quanti regali facesse, non riusciva mai a smaltire.

Io non faccio, non devo più fare : devo ordinare al mio computer di fare al mio posto, i suoi tasti, simboli e comandi al posto delle mie mani. Io mi rapporto male a lui, vorrei non averne bisogno, e lui si vendica non riconoscendo in me il segno del comando: fa di testa sua, mi cambia il carattere mentre scrivo, mi dà segnali di scontento e di disobbedienza. Così, non lo dico, che lui non lo sappia, perché so che non mi vuole bene, come io non gliene voglio. Forse, dico forse, io non avevo davvero bisogno di lui, è piuttosto lui che aveva bisogno di me, di noi tutti. Dicono è un oggetto che semplifica un’infinità di cose, tu comandi e lui fa. E’ che a me non piace comandare, e mi è sempre piaciuta la concretezza materiale del fare. Da sola.

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